La vanità
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gioielli
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Enrico Casti - gioielli
Testimonianza di Enrico Casti
I gioielliTra i gioielli femminili più popolari, il signor Enrico ricorda, in particolare, is arracadas, gli orecchini di corallo con montatura in oro, ma nessun gioiello per gli uomini. Le signore benestanti facevano la differenza perché portavano anche collane, spille, un tocco di rossetto. Il tutto però avveniva sempre abbastanza modestamente; non ha conosciuto una grande esibizione di oro e sfoggio di gioielli.
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Anello in argento con pietra rossa, metà Ottocento circa.
Collezione privata.
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Anello (retro) in argento con pietra rossa, metà Ottocento circa.
Collezione privata.
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Anello in argento, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Anello in argento, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Anello in argento con pietra in corallo incastonata, fine Ottocento circa.
Collezione Bruna Lisci.
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Anello in oro con pietra in corallo incastonata, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Fedina in oro, inizi Novecento circa.
Collezione privata.
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Fede nuziale in oro, inizi Novecento circa.
Collezione Cristina Garau.
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Fede nuziale in oro (retro), inizi Novecento circa.
Collezione Cristina Garau.
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Anello maschile in oro con lavorazione a incisione, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Anello maschile in oro, inizi Novecento circa.
Collezione Cristina Garau.
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Bottoni in argento, metà Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Coppia di bottoni in argento (gemellus de prata), fine Ottocento circa.
Erano usati per chiudere il colletto e i polsi della camicia sia delle donne che degli uomini.
Collezione Giuliana Peddis.
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Coppia di bottoni in argento (gemellus de prata), fine Ottocento circa.
Erano usati per chiudere il colletto e i polsi della camicia sia delle donne che degli uomini.
Collezione Pinuccia Peddis.
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Gemelli in oro, primi Novecento.
Collezione Cristina Garau.
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Coppia di bottoni in oro con lavorazione in filigrana e pietra vitrea rossa incastonata, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Gemelli in argento decorati e dipinti, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Parti terminali di gancera in argento, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Bracciale in argento, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Collana in corallo, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Su marengu (moneta d’oro) recto, 1863.
Collezione Anna Maria Atzeni.
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Su marengu (moneta d’oro) verso, 1863.
Collezione Anna Maria Atzeni.
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Su marengu (moneta d’oro) recto, 1892.
Era un oggetto prezioso che, di solito, veniva trasformato in gioiello sotto forma di spilla o ciondolo.
Collezione Maria Luigia Foddi.
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Su marengu (moneta d’oro) verso, 1892.
Era un oggetto prezioso che, di solito, veniva trasformato in gioiello sotto forma di spilla o ciondolo.
Collezione Maria Luigia Foddi.
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Orecchini in oro, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Particolare di un orecchino in oro, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Orecchini in tre colori (bianco, giallo e rosa) dell’oro con lavorazione a incisione e perla coltivata incastonata, inizi Novecento circa.
Collezione Maria Luigia Foddi.
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Orecchini in oro con pietre vitree azzurre incastonate, inizi Novecento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Primo orecchino in oro (is cannixeddas), 1950 circa.
Erano i primi orecchini delle bambine.
Collezione Anna Maria Atzeni.
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Orecchini in oro con pendenti in corallo.
Collezione Anna Maria Atzeni.
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Orecchini in oro con pendenti in corallo, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Orecchini in oro e pendenti in corallo, 1890 circa.
Collezione Enrico Casti.
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Pendenti di orecchini in corallo, fine Ottocento.
Collezione Giuliana Peddis.
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Spilla in oro con cammeo in avorio, 1920 circa.
Collezione Maria Luigia Foddi.
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Spilla girasole (su girasoli) in lamina d’oro tirata a lustro e filigrana, 1890 circa.
Erano utilizzate per fermare il fazzoletto sulla testa.
Collezione Enrico Casti.
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Spilla girasole (su girasoli) in argento e oro.
La spilla apparteneva a Maria Saba, classe 1881.
Collezione Eleonora Foddi.
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Spilla girasole (su girasoli) in lamina d’argento, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
Foto di Marina Tolu.600600
La magia
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gioielli
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Toto Putzu - l’origine dei brebus, prima parte
Testimonianza di Toto Putzu
L’origine dei brebus
prima parteIl professor Toto Putzu parla del significato e dell’origine storica dei brebus.
Per l’origine dei brebus dobbiamo risalire molto lontano nei tempi, fino ai babilonesi, e far finta che il tempo non sia passato perché in ciò che è magia, religione o superstizione i secoli non contano e quindi tutto passa ma tutto resta, anzi noi in Sardegna e a Gonnos abbiamo conservato cose che si sono perse nel corso della storia.
Già la parola sarda brebu se si cerca una traduzione in italiano non la si trova; tra i giovani parecchi non ne conoscono più il significato, mentre gli anziani ancora ne ricordano il senso ma comunque usano la parola abrebebau per indicare una persona un po’ impacciata, maldestra, incapace, ecc… ma quasi sicuramente non sanno che deriva dalla parola brebus e che quindi abrebebau significa essere colpiti dai brebus.
Brebu deriva da verbum (parola), e la parola è importante, è la prima cosa che fa nascere tutto, dalla parola si passa poi alla scrittura e quando una cosa è scritta rimane. Un tempo si parlava e si scriveva poco, chi parlava e chi scriveva era considerato sacro e aveva potere, quindi era temuto e rispettato. La parola non era per tutti, era scritta e tenuta nascosta. Nella cultura bizantina, ad esempio, il libro appare sempre chiuso, mai aperto; il libro si vede aperto solo dopo Lutero che ha dovuto riformare il cattolicesimo per aprire la Bibbia a tutti. Prima la Bibbia era per pochi e questi pochi detenevano il potere. I primi che hanno avuto il potere di fare i brebus sono stati i sacerdoti all’interno della chiesa, ma i brebus c’erano anche prima del cristianesimo. I primi brebus che esistono in latino sono dei laziali antichi; uno è stato trasmesso da Catone e parla di agricoltura: il Carmen lustrale, probabilmente di origine etrusca. Questo perché allora c’era bisogno di uomini e donne, e quindi di nascite, ma anche di produrre in agricoltura e nell’allevamento e quindi le preghiere, i brebus, erano fatte per fecondare. -
Toto Putzu - l’origine dei brebus, seconda parte
Testimonianza di Toto Putzu
L’origine dei brebus
seconda parteIl professor Toto Putzu legge il carme in latino e lo traduce in sardo.
Il Carmen lustrale, trasmesso da Catone, era una preghiera per la benedizione dei campi; era dedicato a Marte, dio della guerra e dell’agricoltura, a cui si sacrificavano anche un bue, una scrofa (perché prolifica) e un montone.
La preghiera aveva un interesse ben preciso: si sacrificavano alcuni animali per avere in cambio benessere e prosperità attraverso i campi e il bestiame.Carmen lustrale
Mars pater te precor quaesoque - uti sies volens propitius - mihi domo familiaeque nostrae. - Quoius rei ergo - agrum terram fundumque meum - suovitaurilia circumagi iussi, - uti tu morbos visos invisosque - viduertatem vastitudinemque, - calamitates intemperiasque - prohibessis defendas averruncesque, - utiques tu fruges frumenta, - vineta virgultaque, - grandire beneque evenire siris, - pastores pecuaque - selva servassis, - duisque bonam salutem valetudinemque - mihi domo familiaeque nostrae: - harunce rerum ergo, - fundi terrae agrique mei lustrandi - lustrique faciendi ergo, - sicuti dixi, - macte hisce suovetaurilibus - lactentibus inmolandis esto.Carmen Lustrale
(tradotto in sardo)
Deus Marte, deu ti pregu e t’imploru - chi m’assistas a mei e a sa domu mia - a is arresis e sa famìllia insoru. - Pro custa gràtzia tua in sa fatoria - apu fatu arrodiai su cungiadu - a una madri, a un’angioni e a unu vitellu - destinaus a su ritu de su macellu - pro chi su logu siat preservadu - de ònnia mali connotu e no connotu, - no nci siat pesta e nisciunu dannu - ni annada mala, e ni àteru avolotu - permitas ma impellinci(ddus) a tot’annu - e ampara sa binnenna e su lori, - matedu, bestiamini e pastori, e a mei in domu e a sa famìllia mia - donis bona saludi e valentia: - e pro custu benedixi (su chi) apu fatu - totu sa sienda mia e su sartu - e siant macelladus a spadinus - porcu, angioni e vitellu stittadinus, - ocidroxus pro su divinu agiudu - chi m’assistas in totu e ti saludu. -
Toto Putzu - l’origine dei brebus, terza parte
Testimonianza di Toto Putzu
L’origine dei brebus
terza parteRiguardo alle processioni che si facevano nei campi in concomitanza di momenti particolari, come ad esempio, la semina oppure quando si ammalava un animale, il professor Toto Putzu sottolinea che tutte le processioni (ad esclusione della via crucis che si svolgeva in chiesa) avvenivano all’esterno, perché devono attirare e favorire gli elementi della natura. Le processioni si facevano nelle campagne e, infatti, le chiese in Sardegna si trovavano soprattutto nelle campagne, anche perché non c’erano i paesi come ci sono oggi. Si svolgevano tutte dalla primavera fino a settembre, dalla semina al raccolto, nei periodi dell’anno quindi più importanti e rischiosi per l’agricoltura, perché se fosse mancato un buon raccolto era una rovina. Per propiziare il raccolto si faceva dunque una processione oppure si recitavano brebus oppure si ricorreva ad amuleti, scapolari, ecc., a tutti quegli oggetti che si riteneva attirassero il bene e scacciassero il male. Quando, ad esempio, la gallina covava le uova, si metteva vicino un ferro (si è sempre attribuito un grande valore ai metalli e alle pietre), e per rafforzare l’effetto si recitavano brebus.
La magia era un potere attribuito soprattutto alle donne; le maghe erano considerate però in modo negativo e temute; oppure nel caso degli uomini tale potere era attribuito ai sacerdoti.
Un esempio di brebu è il segno della croce che racchiude la trinità e i quattro punti cardinali. Ci si fa la croce, all’inizio o alla fine della giornata, per cercare armonia, forza: il segno della croce è un brebu per antonomasia. -
Angelina Fosci - brebus
Testimonianza di Angelina Fosci
Is brebusLa signora Angelina racconta che in passato praticava la “medicina” per il malocchio - sa mexina de s’ogu liau - e quella per lo spavento – sa mexina de s’atzìchidu – spiega come si facevano i riti e recita i brebus usati nei rispettivi riti.
Per la “medicina” del malocchio (detta anche “medicina” per il mal di testa) iniziava il rito facendo il segno della croce sulla testa della persona recitando, contemporaneamente, sottovoce la formula dei brebus e dopo recitava la preghiera del Credo.
Per la medicina dello spavento faceva is afumentus, prendeva cioè un po’ d’incenso e un po’ di brace, lo metteva poi vicino alla persona che doveva inalarne i fumi e, contemporaneamente, lei si faceva il segno della croce e recitava sottovoce i brebus.
Oltre a queste due “medicine” praticava anche is aconcius, che consistevano nel guarire lussazioni, slogature e nervi accavallati praticando un massaggio con dell’olio santo: si bagnava il pollice con l’olio e faceva il segno della croce sulla testa della persona, poi faceva un altro segno della croce sulla parte da massaggiare.Brebus de s’ogu liau
Deus e Sant’Antiogu - Deus ti torrit s’ogu - e Santu Pantaleu ti torri s’ogu deu - e sa Vìrgini Maria ti fatzat cumpangia - pregasiddu tres bortas - chi ti aberrat is portas - de su paradisu - po intrai anca de issu in poderi suu - in poderi suu.Brebus de s’atzìchidu
No timast fillu miu - ca gei t’apu biu e afumentau - a cera e a timòngia - a timòngia e a cera - cun sa vera cruxi - cun sa cruxi vera - deu ti torri luxi - Deus e Giuanni Batista - ti torrint sa vista. -
Mario Zurru - mexinas
Testimonianza di Mario Zurru
MexinasIl signor Mario spiega il significato di “prendere d’occhio” qualcuno, su pigai ogu.
Significa che uno sguardo emanato dagli occhi di una persona, anche inconsapevolmente, può determinare un maleficio a danno di un’altra persona, di un animale, di un albero, ecc. Per verificare se una persona è stata colpita dall’ogu liau ci sono vari sistemi, tra cui il rito dell’acua patena. Il rito consiste nel recarsi con un bicchiere di vetro dalla persona “esperta”, generalmente una donna anziana (difficilmente una donna giovane pratica questi riti), la quale getta nel bicchiere pieno d’acqua del sale e, a seconda dell’effetto che il sale produce a contatto con l’acqua, si può stabilire se la persona è stata oggetto o meno di un maleficio. Un altro sistema consiste nell’immergere in un bicchiere pieno d’acqua una pietra di fiume o altri oggetti di poco valore, come ad esempio un pezzo di carbone. Dal numero di bollicine che verranno in superficie si potrà sapere quante volte una persona sarà oggetto di ogu liau nell’arco della sua vita.
Durante queste pratiche si recitano dei brebus, per meglio dire, un misto di preghiere e di brebus. Le preghiere si rifanno alla religione cristiana mentre i brebus sono un antico lascito della religione pagana che usava una serie di sortilegi e di magie per debellare quello che non si riusciva a capire (la medicina anticamente era demandata agli sciamani e agli stregoni che si riteneva avessero poteri soprannaturali).
Quando una sola “esperta” non era in grado di risolvere il problema ricorreva all’aiuto di altre “esperte” e si abrebava in contemporanea – di solito tre “esperte” - per dar forza all’intervento. Oltre che con la recita dei brebus il rito a volte veniva rafforzato con l’uso di amuleti, come ad esempio la sabègia o l’occhio di Santa Lucia.
Generalmente erano colpiti da s’ogu liau le ragazze e, soprattutto, i bambini che erano adocchiati involontariamente e inconsapevolmente; per questo, anche se identificate, le persone responsabili non erano affatto colpevolizzate per il maleficio che arrecavano. Quando le puerpere ricevevano le visite in casa e qualcuno faceva dei complimenti un po’ troppo esuberanti sulla bellezza, sul carattere o sulla tranquillità del neonato, generalmente, sottovoce, le mamme imprecavano per neutralizzare eventuali effetti malefici e, appena la persona andava via ed era di spalle, sputavano tre volte di seguito per scongiurare quanto la visitatrice avrebbe potuto procurare al bambino. Lo sputo, infatti, ha lo stesso significato dello scongiuro che hanno le corna nel resto dell’Italia e la saliva è usata come rimedio estremo contro il malocchio e altre malattie.
Anche il signor Mario, sebbene incredulo circa il risultato, si è sottoposto una volta alla “medicina” per guarire da un orzaiolo. Racconta di essere stato convinto da un gruppo di amici e che durante la “medicina” la “donna esperta” sussurrava delle preghiere che non è riuscito a capire. Ma quando è arrivato a casa non aveva più nulla.
Per quanto riguarda l’ambito agropastorale, una volta ha assistito alla “medicina” per scacciare gli uccelli. Il campo appena seminato era stato invaso dai passeri e il proprietario era corso in paese a cercare una signora “esperta” che giunta sul posto aveva percorso il campo lungo tutto il perimetro recitando dei brebus e, dopo questo rito, strano ma vero, i passeri non sono più ritornati. -
Enrico Casti - mexinas
Testimonianza di Enrico Casti
MexinasIl signor Enrico racconta di quando a due anni era caduto sulla brace ed era stato guarito dall’ustione al viso con una “medicina”. L’episodio gli è stato raccontato dalla madre perché il padre era abbastanza riservato sull’accaduto e, non essendo sardo, non era neanche influenzato dalle nostre antiche credenze. Comunque il padre, dopo essersi rivolto al medico che lo aveva allarmato circa la gravità dell’ustione, si era rivolto a un signore che preparava un unguento a base di erbe e gli aveva dato una pomata dal colore biancastro che doveva applicare costantemente, senza lasciare asciugare mai la piaga, di giorno e di notte. La pomata era solida, ma bastava intiepidirla un po’ per farla sciogliere. Dopo un po’ di tempo il padre si era accorto che, sotto la crosta che si staccava, la pelle si stava rigenerando sana e non raggrinzita, come di solito diventa quella di chi ha subito un’ustione, tanto è vero che oggi il signor Enrico non ricorda neanche più quale parte del viso fu colpita. Della pomata conosce solo due elementi (che non rivela), ma non è rimasta nessuna traccia della ricetta, poiché queste persone agivano in clandestinità, per paura dei medici condotti del paese che li potevano denunciare in quanto imbroglioni.
Di persone che facevano “medicine” ce n’erano tante e soprattutto donne che avevano fama di essere mexineras e preparavano pozioni varie. Una “medicina” davvero curiosa era quella per curare gli occhi con il latte schizzato direttamente dalle mammelle. Questo fatto è molto curioso, perché allora le donne non potevano portare scollature, quindi tirare fuori il seno davanti a un uomo, per quei tempi, era davvero una cosa impensabile. -
Enrico Casti - s’ogu liau
Testimonianza di Enrico Casti
S’ogu liauIl signor Enrico racconta di quando un giorno da bambino stava giocando tranquillo e di come, a un certo punto, si sia accasciato a terra senza reagire più. Il padre lo prese, moribondo, per portarlo dal medico e per fare in fretta passò attraverso il cortile di una casa vicina; nel cortile c’era una donna che faceva delle “medicine” e che subito gli disse che si trattava di ogu liau. La donna corse in casa, prese un grande medaglione che gli poggiò da qualche parte recitando alcune formule. Quando il padre arrivò dal medico il signor Enrico aveva già ripreso conoscenza. Oltre a questo episodio, il signor Enrico ricorda che, contro il malocchio, si utilizzava un nastrino verde che si metteva ai bambini particolarmente belli o agli agnellini che si allevavano in casa o a qualsiasi animale a cui si teneva in modo particolare e che poteva essere oggetto di malocchio.
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Barbara Saba - s’acua de patena
Testimonianza di Barbara Saba
S’acua de patenaLa signora Barbara ci mostra il rito dell’acua de patena.
Si riempie mezzo bicchiere d’acqua, si prendono poi tre granelli di sale, ci si fa il segno della croce e si pronuncia il nome della persona cui è destinata la “medicina”; poi si buttano nell’acqua, a uno a uno, i granelli di sale facendo il segno della croce sul bordo del bicchiere e sussurrando lentamente tra le labbra i brebus. Si recitano altre preghiere e si versano tre chicchi di grano nell’acqua recitando altri brebus e la persona deve bere tre sorsi d’acqua. Si fa poi il segno della croce per tre volte sul capo, sulla nuca e nella fronte della persona pronunciando le parole: “Deus gràtzias”. Se versando il grano si formano delle bolle d’aria significa che la persona ha il mal di testa o s’ogu liau. Alla fine del rito si butta l’acqua in un vaso di fiori. Se mettendo il grano nel bicchiere viene da sbadigliare molto, vuol dire che la persona sta particolarmente male e crea malessere anche a chi compie il rito. Se si forma una sola bolla, si ha un inizio di malocchio; il malocchio vero e proprio si ha quando il grano resta a galla oppure quando si formano altre bolle negli altri due chicchi di grano. Quando si verifica un caso iniziale di malocchio, non si deve far passare il giovedì prima di ripetere il rito; il rito si può ripetere per tre giorni diversi o per tre volte consecutive. Le parole pronunciate durante il rito non si possono svelare finché non si decide di insegnare il rito a un’altra persona più giovane che le deve, comunque, tenere per sé finché anche lei non trasmetterà questa conoscenza. Se si viola questa regola si dice che la “medicina” potrebbe non sortire più l’effetto. Il rito può essere compiuto anche in lontananza, per telefono ad esempio, basta conoscere il nome e cognome della persona. -
Cicci Agabbio - mexinas
Testimonianza di Cicci Agabbio
MexinasIl signor Cicci Agabbio racconta di un tragico episodio accaduto nella sua famiglia, che viene attribuito al malocchio. Sua sorella, una bambina particolarmente bella, si ammalò improvvisamente, peggiorando di giorno in giorno; ma la mamma non credendo a s’ogu liau non le fece fare la “medicina” e la bambina morì. Da allora la madre ebbe dei rimorsi e consigliava a tutti di provare a fare la “medicina” in quanto, anche se non efficace, di sicuro non sarebbe stata dannosa.
In seguito a questo episodio, il signor Cicci Agabbio si è appassionato alle “medicine” antiche e ancora ne ricorda qualcuna, anche se non le fa, ma dice che non si possono raccontare. È molto importante crederci; sottolinea, inoltre, come tutti questi riti inizino in nomine Deus.
Una “medicina” curiosa che può raccontare è quella per il mal di denti: per far passare il dolore è necessario che si taglino le unghie delle mani e dei piedi il venerdì; se poi si vuole evitare sempre di avere mal di denti è sufficiente tagliarsi le unghie di mani e piedi ogni venerdì.
Un’altra “medicina” è per il mal di pancia del cavallo: il rito deve essere compiuto da due gemelli, uno dei quali nato con i piedi in avanti, oppure anche da una sola persona purché sia nata con i piedi in avanti; si devono recitare dei brebus e con il piede fare il segno della croce sulla pancia del cavallo.
Un’altra medicina è quella per trovare moglie o marito: si devono recitare dei brebus e mettere delle foglie sotto il cuscino: il tipo di foglie non può essere rivelato, salvo che non si voglia essere sottoposti al rito. -
Giuseppa Floris - mexinas
Testimonianza di Giuseppa Floris
MexinasLa signora Giuseppa racconta la sua esperienza con s’ogu liau. Un giorno era uscita con il figlio piccolo in braccio e, a un tratto, il bambino aveva perso conoscenza. L’aveva portato da una donna anziana che gli fece la “medicina” con i brebus, l’acqua con tre granelli di sale e tre chicchi di grano. Si erano formate tante bollicine; poi il bambino aveva dovuto bere l’acqua e dopo circa dieci minuti si era ripreso.
Racconta poi alcuni rimedi naturali che prepara a base di erbe e ingredienti naturali.
Per il mal di denti: s’impasta un po’ di farina integrale con il vino rosso (sa scetara de binu nieddu) e si stende su un panno che si deve poi appoggiare nella parte dove si sente il dolore.
Per i dolori in generale: si mette del rosmarino a macerare con l’alcol o l’acquavite per quindici giorni al sole e poi si usa per massaggiare.
Per i foruncoli: si utilizza un po’ di narbedda, ossia la malva, con lardo ben pestato e poi si applica sul foruncolo fino a che scompare.
Per gli arrossamenti della pelle e per i bronchi: si riscalda il grasso della pecora e si appoggia sul petto con un panno di lana. Un impiastro, ottenuto facendo sciogliere le candele steariche (non quelle di cera), spalmato su un foglio di carta paglia con un po’ di zucchero e appoggiato sul petto, è efficace contro il catarro.
Per i reumatismi e i dolori alle articolazioni: si mette l’argilla essiccata nell’acqua per circa un giorno e poi si applica con un panno di lana avvolto nella carta di giornale per non lasciar passare l’aria; in alternativa si può fare anche con la ricotta.
Per il mal di gola, gli orecchioni e il mal di pancia: si mette, con una paletta, una foglia di sambuco sul fuoco e la si applica, con un panno di lana, sul collo per il mal di gola e gli orecchioni; oppure si utilizza a infusione (per il mal di gola). Per il mal di pancia si utilizza una foglia di tabacco con acquavite o olio che si mette calda sulla pancia con un panno di lana e la punta rivolta verso l’alto, altrimenti - si diceva - che provocasse l’uscita dell’ernia.
Per la tosse: si prepara un decotto a base di tre o quattro foglie di eucalipto, tre caramelle alla menta, fichi secchi, uva passa e la mela cotogna e poi si beve come uno sciroppo.
Per i dolori (is bentosas): si prende un panno e si avvolge (solitamente) una moneta da una lira; si imbevono di acquavite i bordi dello straccio e si dà fuoco. Si appoggia poi il panno sulla parte da trattare e si copre con un bicchiere: all’interno si riempie di fumo bianco e il dolore o il gonfiore viene eliminato.
Per le ingessature: s’impasta per bene acquavite, sapone e albume d’uovo, si applica e, una volta asciutto, diventa duro come il gesso. -
Eleonora Foddi - s’ogu liau
Testimonianza di Eleonora Foddi
S’ogu liauLa signora Eleonora racconta che all’età di otto anni una sorella l’aveva mandata a comprare la candeggina; nel negozio c’era una signora che, accarezzandola, aveva chiesto alla negoziante chi fosse quella bella bambina. Rientrando a casa era caduta per tre volte e aveva, infine, perso conoscenza. Era stato chiamato il medico che non aveva però saputo cosa fare, poi avevano chiamato una zia che sapeva fare la “medicina” del malocchio e, fatta questa “medicina”, aveva ripreso conoscenza continuando però a stare malissimo per tre giorni. Quando si era ripresa un po’, l’avevano portata all’ospedale di Ingurtosu per una visita e anche quel medico aveva detto che non si poteva fare niente se non un trapianto di cuore. In seguito altre tre donne le avevano praticato la “medicina” contro il malocchio per circa nove mesi a ogni luna calante per tre volte, finché è guarita definitivamente.
Le è poi capitato anche con una pianta di ciliegio con i frutti maturi; era andata una persona a trovarla in campagna, la quale per parecchie volte disse che era una bellissima pianta; come andò via questa persona la pianta si seccò.
Un episodio simile capitò anche con un cavallo appena comprato da suo figlio: la mattina successiva, lo avevano trovato per terra moribondo. Appena lei lo aveva saputo, aveva subito telefonato a una signora che fece la “medicina” contro il malocchio al cavallo; contemporaneamente il figlio era andato a cercare il veterinario ma quando arrivarono, il cavallo era già in piedi e stava bene perché la signora era già intervenuta. Una volta era capitato anche con una piantina di begonia. Un parente toccando la piantina le disse che era molto bella; appena questa persona andò via, la begonia appassì. La sua vicina le chiese se era andata a trovarla una certa persona e quando sentì la risposta affermativa le chiese di cercare un recipiente d’acqua, del grano e un rametto di basilico. Fece la “medicina” e versò poi l’acqua sulla piantina che, al contatto con l’acqua, subito rinvigorì.
Oltre a queste testimonianze sul malocchio, la signora racconta come si fa la “medicina” per i porri.
Questa “medicina” si deve fare in luna calante; per ogni porro si fa un nodo su un filo di paglia, la mattina, a digiuno, si recita la preghiera del Credo tante volte quanti sono i porri, poi si butta il filo di paglia dentro un pozzo mettendosi di spalle e dicendo prima un altro Credo. Quando il nodo si decompone, il porro sparisce. -
anonima - mexinas
Testimonianza anonima
MexinasLa signora ci racconta le “medicine” che faceva la madre e altre che anche lei ha praticato.
Medicina per il mal di testa e s’ogu liau
Si faceva per bambini, adulti e animali; inizia con il segno della croce, poi si invoca la Santissima Trinità e si pronunciano queste parole: “Che con questa medicina guarisca sia il mal di testa che s’ogu liau di…” (si pronunciava il nome). Poi si recitano i brebus e alla fine si fa il segno della croce e si recita la preghiera del Credo. Il rito si può compiere anche a distanza, pronunciando il nome della persona oppure viene fatta recapitare alla persona una bottiglia d’acqua abrebada affinché la possa bere. Per gli animali di solito si abrebàt il pane o l’acqua. La “medicina” si deve ripetere tre volte per tre giorni di seguito.Brebus de s’ogu liau
Deus e Sant’Antiogu - Deus ti torrit s’ogu - Santu Liberau - s’ogu ti siat torrau - sa Vìrgini Maria ti siat po cumpangia – tzerriendidda tres bortas - chi t’aberrat is portas - de su celu, de paradisu po andai – anca fiat issu - a cumenti issu fiat andau - cun fortza e cun poderi - e po poderi e po saludi.Sa mexina de sa buca maba (per le infiammazioni del cavo orale)
Si prendono tre foglie di rovo oppure tre foglie di rosa e si dice: “In s’interis chi si sicat custa folla de rosa chi sanit sa buca mala de (nome e cognome della persona)”, si fa il segno della croce sulla foglia e si recita la preghiera del Credo, poi si piega la foglia e si ripete il rito per ogni foglia; infine si mettono le foglie in un buco sul muro e si ripete il rito per tre giorni.Mexina de su fogu terra (per il fuoco di Sant’Antonio o infiammazioni della pelle del viso)
Per questa “medicina” si utilizzava una pietra e un atzraxu, un pezzo di ferro forgiato dal fabbro in luna calante, e si batteva il ferro sulla pietra per creare delle scintille vicino al viso della persona da guarire. Il rito si doveva ripetere per cinque, sette o nove giorni, a seconda della gravità; nel frattempo si recitavano dei brebus che però non le sono stati tramandati e la preghiera del Credo. La persona non si doveva lavare il viso o prendere altre medicine finché non terminava tutto il rituale, in caso contrario non si aveva alcun beneficio.Infine la signora mostra su contravelenu che serviva per curare le punture di insetto. L’oggetto si doveva buttare per terra e poi si doveva passare a forma di croce per tre volte sulla puntura; poi la persona doveva prenderlo, ributtarlo a terra e restituirlo a chi stava facendo il rito. Nel frattempo si diceva il Credo e forse anche dei brebus. All’interno del contravelenu c’era la testa di una vipera tagliata in luna calante e abrebata. Se uno non lo possedeva, lo chiedeva in prestito; si dava in pegno un oggetto simbolico, ad esempio un tovagliolo, un piatto, ecc., che poi si restituiva oppure veniva trattenuto nel caso su contravelenu non fosse restituito.
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Sa sabègia in argento con perline di corallo, inizi Novecento.
Conosciuta anche come appiconi de s’ogu liau, si usava fissarla sul costume.
Collezione Pinuccia Peddis.
Foto di Marina Tolu.600600 - images/morfeoshow/la_magia-7479/big/002 magia_gonnos.jpg
Anello in metallo con occhio di Santa Lucia, fine Ottocento circa.
Amuleto contro il malocchio.
Collezione Giuliana Peddis.
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Anello in metallo con occhio di Santa Lucia, fine Ottocento circa.
Amuleto contro il malocchio.
Collezione Giuliana Peddis.
Foto di Marina Tolu.600600 - images/morfeoshow/la_magia-7479/big/004 magia_gonnos.jpg
Sonaglio in argento, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Bavetta in oro, 1963.
Si metteva sul bavaglino del neonato come protezione.
Collezione Anna Maria Atzeni.
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Su dromi dromi.
Follicolo di mantide religiosa, si utilizzava per curare l’insonnia mettendolo sotto il cuscino.
Collezione privata.
Foto di Marina Tolu.600600 - images/morfeoshow/la_magia-7479/big/007 magia_gonnos.jpg
Atzraxiu.
Ferro battuto dal fabbro a fine luna, serviva per fare sa mexina contro il fuoco di Sant’Antonio.
Collezione privata.
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Contravelenu.
Sacchetto di cuoio contenente all’interno una testa di vipera tagliata a fine luna; la testa veniva essiccata e abrebara prima di essere inserita all’interno. Si usava per curare le punture d’insetto velenose nelle persone e negli animali.
Collezione privata.
Foto di Marina Tolu.600600
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Rosario in argento, anni Sessanta.
Era usanza diffusa che la suocera lo regalasse alla futura nuora in occasione del fidanzamento.
Collezione Cristina Garau.
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Rosario in argento, particolare della croce, anni Sessanta.
Collezione Cristina Garau.
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Rosario in argento, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Rosario in argento, particolare della croce, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Rosario con reliquiario, primi Novecento.
Nel retro della croce è incastonata un’ampolla reliquario contenente, probabilmente, acqua benedetta.
Collezione Maria Luigia Foddi.
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Rosario con reliquiario, particolare del retro della croce, primi Novecento.
Nel retro della croce è incastonata un’ampolla reliquario contenente, probabilmente, acqua benedetta.
Collezione Maria Luigia Foddi.
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Medaglietta (recto) di Santa Monica, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta (verso) di Santa Monica, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta (recto e verso), fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta (recto), fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta (verso), fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta (recto) dell’Immacolata Concezione, 1830.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta (verso) dell’Immacolata Concezione, 1830.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta di Sant’Ignazio da Laconi, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medaglietta, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Medagliette di Sant’Ignazio da Laconi e di Santa Maria Goretti, fine Ottocento circa.
Collezione Giuliana Peddis.
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Scapolare di San Francesco d’Assisi, primi Novecento.
Collezione Maria Luigia Foddi.
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Chiesa campestre di Santa Severa.
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Santa Severa, facciata, anni Quaranta.
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Santa Severa, parte laterale, anni Quaranta.
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Festa di Santa Severa.
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Festa di Santa Severa.
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La piccola e antichissima statua di Santa Severa collocata nella nicchia sopra l’altare della chiesa di Santa Severa.
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La statua di Santa Severa che si trova nella chiesa del Sacro Cuore.
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Chiesa campestre di Santa Severa.
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Chiesa campestre di Santa Severa.
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Festa di Santa Severa.
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Chiesa di Santa Barbara.
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Processione dell’Assunta; sullo sfondo la chiesa di Santa Barbara.
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La statua di Santa Barbara.
Foto dell’archivio comunale – Andrea Meloni.
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Chiesa di Santa Barbara.
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Festa di Sant’Isidoro.
Sant’Isidoro viene festeggiato nelle diverse chiese del paese con riti solenni.
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La statua della beata Vergine della salute.
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Festa della beata Vergine della salute.
La Beata Vergine della salute viene festeggiata, a fine maggio, nella parrocchia del Sacro Cuore.
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Fiaccolata per la Beata Vergine di Lourdes.
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Chiesa del Sacro Cuore.
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Chiesa del Sacro Cuore.
Foto dell’archivio comunale – Andrea Meloni.400600
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La statua di Santa Barbara portata in processione.
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Celebrazione della messa, nel parco di Perda de Pibera, per la festa di Santa Barbara.
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Il carro trainato dai buoi in processione per la festa di Santa Barbara.
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Il gruppo folk di Guspini.
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Le prioresse.
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La confraternita.
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Il carro con la statua di Santa Barbara.
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Il carro trainato dai buoi che portano la santa in processione.
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La confraternita.
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Il gruppo folk di Sant’Isidoro.
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Le prioresse.
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Cavalieri in processione.
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Cavalieri in processione.
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Un carro trainato dai buoi.
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Le prioresse.
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La confraternita.
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La processione dei fedeli.
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La processione dei fedeli.
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La fine della processione.
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Festa di Sant’Isidoro, 2008.
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Il gruppo folk di Segariu, 2008.
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Il gruppo folk “Sa Giara” di Tuili, 2008.
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Il gruppo folk “Santu Juanni” di Pabillonis, 2008.
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Il gruppo folk “Santu Juanni” di Pabillonis, 2008.
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Il gruppo folk “Proloco” di Vallermosa, 2008.
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Il gruppo folk “Sant’Isidoro” di Samassi, 2008.
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Il gruppo folk di Siddi, 2008.
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Il gruppo folk “Sant’Isidoro” di Gonnosfanadiga, 2008.
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Trattore con antichi attrezzi agricoli, 2008.
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Giovani dentro sa traca, 2008.
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Trattore con sa traca, 2008.
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Giovani dentro sa traca, 2008.
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Trattore con sa traca, 2008.
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Uomini con il calesse, 2008.
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Sa traca su un antico carro, 2008.
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Gruppo a cavallo e il pony di Toto Putzu, 2008.
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Gruppo a cavallo, 2008.
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Bambini in carrozza, 2008.
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Trattore con antico aratro, 2008.
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Trattore con sa traca, 2008.
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Giovane coppia in sa traca, 2008.
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Trattore con antichi attrezzi agricoli, 2008.
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Trattore con sa traca, 2008.
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Trattori addobbati, 2008.
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Trattore con antichi attrezzi agricoli, 2008.
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Sa traca con animali selvatici locali imbalsamati, 2008.
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Carro trainato dai buoi, 2008.
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Il gruppo folk “Sa Giara di Tuili”, 2008.
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Il gruppo folk “Antiche tradizioni popolari” di Guspini, 2008.
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Il carro con la statua di Sant’Isidoro trainato dai buoi, 2008.
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Gruppo con tamburi, 2008.
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Gruppo con tamburi e giovani cavalieri, 2008.
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Giovani cavalieri, 2008.
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Il gruppo “Apostolato della preghiera” di Fluminimaggiore a cavallo, 2010.
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Gruppo a cavallo, 2010.
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Famiglia in calesse, 2010.
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Trattori addobbati, 2010.
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Sa traca: le donne riproducono l’atto della raccolta delle olive, 2010.
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Le prioresse, 2010.
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Su scravamentu. Inizio del rito.
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Su scravamentu. Il Cristo viene scoperto.
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Su scravamentu. Il Cristo viene tolto dalla croce.
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Panoramica dell’altare della chiesa di Santa Barbara.
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Interno della chiesa di Santa Barbara.
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I confratelli.
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Viene mostrato ai fedeli il chiodo che teneva il Cristo alla croce.
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Su scravamentu. Il Cristo viene tolto dalla croce.
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Su scravamentu. Il Cristo viene tolto dalla croce.
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Su scravamentu. Il Cristo viene mostrato alla Madonna.
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Su scravamentu. Il Cristo viene deposto su un letto e ricoperto di fiori.
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Su scravamentu. Il Cristo ricoperto dai fiori.
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Su scravamentu. La Madonna è vestita a lutto.
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Su scravamentu. Il Cristo e la Madonna vengono portati in processione.
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Le prioresse.
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I confratelli.
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L’artigianato
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gioielli
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Iuri Marrocu - gioielli
Testimonianza di Iuri Marrocu
I gioielliIuri Marrocu racconta la storia dei gioielli in Sardegna e, in particolare, a Gonnosfanadiga, illustrando modelli, usi e costumi e mostrando la lavorazione. Molti gioielli non sono punzonati, non hanno cioè marchio; alcuni lo hanno ma non è leggibile, non è pertanto possibile risalire alla loro origine.
Nella cultura del medio campidano abbiamo una vasta gamma di gioielli, non sempre originari del luogo, ma frutto di mescolanze. La patria della filigrana (fili e granuli d’oro), dalla metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento, sono Quartu Sant’Elena e Cagliari. Non ci sono testimonianze che documentino la presenza di artigiani orafi a Gonnosfanadiga e nei paesi vicini, anche se è risaputo che c’erano degli orafi che lavoravano in questo territorio. I gioielli, pur con qualche differenza estetica, sono molto simili nei vari paesi della provincia. Il filo conduttore sono le influenze, a partire dai fenici sino ai pisani; i fenici però sono quelli che ci hanno condizionato maggiormente, insegnandoci la lavorazione della filigrana e influenzando lo stile della maggior parte dei nostri gioielli che sono, tra l’altro, molto simili a quelli dei paesi del bacino del Mediterraneo.
Secondo l’artigiano erano molto diffusi i bottoni, usati per chiudere il colletto e i polsi della camicia sia delle donne che degli uomini, le spille utilizzate per fermare il fazzoletto e gli orecchini con le gocce di corallo (is arracadas) per i quali c’era una particolare passione. I più diffusi erano costituiti da cerchi d’oro (raramente d’argento) con il pendente in corallo a forma di goccia di diverse dimensioni.
Vi erano anche molti rosari perché era usanza comune in paese che la suocera lo regalasse alla futura nuora; nella ricerca sono documentati soprattutto rosari in filigrana d’argento (l’oro non era molto diffuso) ma anche in madreperla e legno.
Molti gioielli erano dei portafortuna; uno in particolare era molto comune: sa sabègia, chiamata anche kokko o pinnareddu. Solitamente montata in argento, spesso brunito, di varie dimensioni, sa sabègia si portava appesa negli abiti come spilla ma, soprattutto, si usava regalarla alla nascita di un bambino e la si appendeva nella culla. Il globo era in pasta vitrea nera (ossidiana), ma anche in onice ed era sempre accompagnato dal corallo che dicevano avesse proprietà terapeutiche. La sabègia era utilizzata anche quando s’inaugurava una casa; l’amuleto veniva appeso nella stanza più distante dall’ingresso, mentre era abitudine mettere un bulbo di asfodelo sotto il granito dell’ingresso di casa.La lavorazione della filigrana
Per realizzare, ad esempio, la tipica fede sarda, si utilizza una lastra d’oro in cui sono stati inseriti preventivamente dei cerchietti che ospiteranno poi i pallini d’oro; affianco a questi cerchietti, una volta determinata la forma, si aggiungono le foglioline, pezzettini di filigrana, sagomati a mano, a forma di foglia di fico d’india; vengono inseriti in sequenza uno dietro l’altro fino a creare il disegno. Si mette poi a spolvero dell’oro e si salda; viene poi ritagliato, girato e chiuso con un anello da sotto. Si mette infine nell’acido, si spazzola e si colora con una tecnica antica che ne invecchia il colore grazie all’uso di sali.
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Anello di fidanzamento, chiamato anche “manina di Seui”.
Aperto, le due mani si intrecciano sul cuore.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello di fidanzamento, chiamato anche “manina di Seui”.
Aperto, è composto da tre anelli uniti da un perno.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello di fidanzamento, chiamato anche “manina di Seui”.
Chiuso, le mani nascondono e proteggono il cuore.
Collezione Iuri Marrocu.
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Fede sarda campidanese, con quattro file di grani d’oro.
Collezione Iuri Marrocu.
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Fede sarda campidanese a rombo.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello “a corbula” in filigrana d’oro.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello “a corbula” in filigrana d’oro con turchese incastonato.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello “a corbula” in filigrana d’oro con turchese incastonato.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello “a corbula” in filigrana d’oro con corallo ovale incastonato.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello in lastra d’oro con incastonata una corniola su cui è incisa la testa di un guerriero.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello in lastra d’oro con incastonata una corniola su cui è incisa la testa di un guerriero.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello “a bottone” con palmette in lastra d’oro incisa e pietra vitrea rossa incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Anello in oro con piccole perle intorno a una pietra granata incastonata.
È abbinato agli orecchini della foto successiva.
Collezione Iuri Marrocu.
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Orecchini in oro con piccole perle intorno a pietre granate incastonate.
Sono abbinati all’anello della foto precedente.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottoni in argento brunito con grani.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottone singolo in argento.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottone singolo (sul modello “iglesiente”) in argento con corallo incastonato.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottone a ciondolo (sul modello “iglesiente”) in argento con corallo incastonato.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottone a ciondolo (sul modello “iglesiente”) in argento con corallo incastonato.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottoni campidanesi da polso in oro e pietra vitrea rossa incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottoni campidanesi da polso in oro con grani e pietra vitrea rossa incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottoni in oro, lavorati “a giorno”, con pietra vitrea rossa incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bottone campidanese in oro, lavorati in filigrana, con pietra vitrea rossa incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bracciale a scarabeo, in lastra d’oro incisa a mano.
Riproduzione di un modello proveniente da Tharros (VII secolo a.C.).
Collezione Iuri Marrocu.
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Bracciale e orecchini in lastra bombata a mezzo vago con pietre granate incastonate.
Collezione Iuri Marrocu.
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Collana con vaghi d’oro.
Collezione Iuri Marrocu.
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Catena settecentesca in filigrana, con granate e bottone.
Collezione Iuri Marrocu.
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Catena in argento “a giunchiglio” con corbula, sfere d’argento pendenti e onice nero.
Collezione Iuri Marrocu.
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Collana “a pettorale” in oro e coralli.
Collezione Iuri Marrocu.
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Girocollo d’oro in filigrana, con ciondolo di grani d’oro e piccole perle intorno a una pietra granata incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Catena d’argento con ciondolo terminante con sa sabègia e due perline di corallo.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo sabègia con coppette a rosetta d’argento.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo a spirale in argento e onice.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo con spirali d’argento e pietra rossa incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo in argento con un’immagine sacra.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo in oro, granate e piccole perle incastonate; il disegno risale al periodo giudicale.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo “a quadrifoglio” in oro con piccole perle.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo d’oro “a bottone” in filigrana e pietra rossa incastonata.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo in argento con sa sabègia, perline di corallo e campanellini d’argento.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo in argento con sa sabègia, perline di corallo e campanellini d’argento, particolare.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo in argento (recto) con occhio di Santa Lucia, perline di corallo e campanellini d’argento.
Collezione Iuri Marrocu.
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Ciondolo in argento (verso) con immagine della Madonna col bambino, perline di corallo e campanellini d’argento.
Collezione Iuri Marrocu.
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Orecchini in oro “a palia”, chiamati anche “orecchini della fornaia di Quartu Sant’Elena”, in filigrana e granate.
Collezione Iuri Marrocu.
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Orecchini in oro “a lasu” con piccole perle e coralli incastonati.
Collezione Iuri Marrocu.
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Orecchini in oro “a lasu” (sul modello “iglesiente”) con piccole perle e coralli incastonati.
Collezione Iuri Marrocu.
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Orecchini in canna d’oro con gocce di corallo.
Collezione Iuri Marrocu.
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Orecchini in canna d’oro con gocce di corallo.
Collezione Iuri Marrocu.
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Orecchini in oro con spola ovale di corallo e gocce di corallo pendenti.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla sabègia in filigrana d’oro e perlina di corallo.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spille in oro, chiamate anche “margherite di Quartu Sant’Elena”, in filigrana con piccole perle, pietra granata e corallo incastonati.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in oro in filigrana a traforo con coralli.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in oro “a mora” in filigrana a traforo con coralli.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in oro “a piccione” in filigrana, piccole perle e corallo incastonati.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in oro “a lustrino”, chiamata anche spilla a “coro”.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in oro “a lustrino” con stella in lamina d’oro.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in oro “a lustrino”, chiamata anche “presentosa”, con stella e foglie in lamina d’oro.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in oro “a lustrino”, chiamata anche “presentosa”, con stella e foglie in lamina d’oro.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla e ciondolo in oro con piccole perle e filigrana a traforo.
Collezione Iuri Marrocu.
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Spilla in filigrana d’oro con tre corbule.
Collezione Iuri Marrocu.
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Su lasu in oro con piccole perle e pietre granate incastonate.
Usato come ciondolo con un nastrino o come spilla.
Collezione Iuri Marrocu.
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Rosario in filigrana d’oro.
Collezione Iuri Marrocu.
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Bracciale a rosario in filigrana d’oro e grani di corallo.
Collezione Iuri Marrocu.
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Croce con spirali di filigrana d’oro e piccole perle incastonate.
Collezione Iuri Marrocu.
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Rosario con bottoni in argento e grani di pietre granate.
Collezione Iuri Marrocu.
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Patena in argento con reliquiario in broccato rosso.
Collezione Iuri Marrocu.
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Patena in argento con reliquiario aperto in broccato rosso.
Collezione Iuri Marrocu.
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I gioielli
Dalle ricerche storiche sul paese e, in particolare, sul costume e sui gioielli tradizionali e secondo le testimonianze delle persone più anziane, a Gonnosfanadiga risulta un uso molto limitato di gioielli; rispetto alla maggioranza della popolazione che viveva principalmente di agricoltura e di pastorizia erano poche, infatti, le persone di condizione sociale abbastanza agiata da potersi permettere i gioielli. A partire dai primi del Novecento, inoltre, si perse anche l’uso di indossare il costume tradizionale; gli abitanti del paese preferirono portare abiti più comodi e pratici e, pertanto, non si ha nemmeno più ricordo dei gioielli indossati in occasioni particolari con il costume. Nei periodi di particolare difficoltà economica i gioielli rappresentarono un’ottima opportunità come merce di scambio: venivano venduti in cambio di prodotti di prima necessità oppure, ad esempio, nel periodo fascista molto oro dovette essere ceduto per la patria.
Malgrado ciò, inventari e testamenti documentano l’esistenza di gioielli tramandati tra parenti o donati come ex voto ai santi, dei quali oggi non rimane più niente perché sono stati rubati oppure venduti per contribuire alla costruzione o restaurazione delle chiese. I gioielli citati in questi documenti erano prendas de oro e de prata e, nello specifico, bottoni, coralli, cannacas (collane), cadenatzus (catene) e giunchìllius d’oro (catene più lunghe, costituite da piccoli anelli, che si portavano avvolte in più giri intorno al collo).
Molto prezioso era su marengu de oru (una moneta d’oro): i pochi che avevano la fortuna di possederlo lo trasformavano in gioiello sotto forma di spilla o ciondolo.
Da questa ricerca è emerso che i pochi gioielli ancora presenti in paese vengono custoditi gelosamente dagli abitanti che, difficilmente, svelano di averli, spesso per diffidenza, spesso per il carattere riservato tipico dei Gonnesi che amano poco ostentare ciò che possiedono. Gli amuleti sono ancora più difficili da trovare perché chi, ancora, li conserva non vuole che si sappia e li custodisce ancora più gelosamente dei gioielli. È stato perciò difficile documentare i gioielli che presentiamo in questo lavoro ma, grazie alla collaborazione di alcune persone che ci hanno reso disponibili alcuni interessanti esemplari, possiamo ricostruire quali erano i principali gioielli utilizzati.
Informazioni preziose provengono dall’artigiano orafo Iuri Marrocu, intervistato nel corso della ricerca.
Secondo l’artigiano erano molto diffusi i bottoni, usati per chiudere il colletto e i polsi della camicia sia delle donne che degli uomini, le spille utilizzate per fermare il fazzoletto e gli orecchini con le gocce di corallo (is arracadas) per i quali c’era una particolare passione. I più diffusi erano costituiti da cerchi d’oro (raramente d’argento) con il pendente in corallo a forma di goccia di diverse dimensioni.
Vi erano anche molti rosari perché era usanza comune in paese che la suocera lo regalasse alla futura nuora; nella ricerca sono documentati soprattutto rosari in filigrana d’argento (l’oro non era molto diffuso) ma anche in madreperla e legno.
Molti gioielli erano dei portafortuna; uno in particolare era molto comune: sa sabègia, chiamata anche cocu o pinnareddu. Solitamente montata in argento, spesso brunito, di varie dimensioni, sa sabègia si portava appesa negli abiti come spilla ma, soprattutto, si usava regalarla alla nascita di un bambino e la si appendeva nella culla. Il globo era in pasta vitrea nera (ossidiana), ma anche in onice ed era sempre accompagnato dal corallo che dicevano avesse proprietà terapeutiche. Sa sabègia era utilizzata anche quando s’inaugurava una casa; l’amuleto veniva appeso nella stanza più distante dall’ingresso, mentre era abitudine mettere un bulbo di asfodelo sotto il granito dell’ingresso di casa.
Gli amuleti proteggevano dal malocchio persone, animali e piante; in particolar modo sa sabègia veniva utilizzata nei riti contro il malocchio che viene trasmesso, attraverso lo sguardo spesso inconsapevole, ai bambini. Questi riti vengono espletati, tuttora, principalmente dalle donne, le quali hanno ricevuto in dono da altre donne più anziane tutte le indicazioni per continuare a praticarli. Durante il rito vengono pronunciate delle formule – is brebus – che sono sostanzialmente preghiere in rima rivolte ai santi. Gli amuleti utilizzati nei riti vengono precedentemente abrebaus in modo da acquisire potenza magica. Altri elementi utilizzati nei riti erano spesso il grano, l’olio, il sale, il caffè, la palma benedetta, ecc.
Oltre all’uso della sabègia era consuetudine mettere, come protezione, un nastrino verde al polso dei bambini, oppure appendere al primo bavaglino una medaglietta - la bavetta - o una medaglietta benedetta di Sant’Antonio. La medaglia di Sant’Antonio era usata anche per proteggere gli animali e la casa; in questo caso, ad esempio, la si nascondeva sotto l’intonaco delle pareti o sotto il pavimento.
gioielli
costumi
paesi
Crediti