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La magia
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    Su sonagliu.
    Amuleto contro il malocchio (i sonagli hanno la funzione di allontanare gli influssi negativi), la campanella veniva regalata al primogenito e tramandata per generazioni.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Amuleto “occhio di Santa Lucia” montato in argento.
    L’opercolo del gasteropode Turbo rugosus per la sua forma, richiamante quella dell’occhio, è divenuto l’amuleto deputato a proteggere gli occhi da ogni male.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su pinnadeddu.
    Questo amuleto di forma sferica in pasta vitrea nera, chiamato in altre zone dell’isola pinnadellu, sabegia, sebeze, coco, veniva appeso negli abiti o nelle culle e aveva lo scopo di proteggere dal malocchio gli adulti e in particolar modo i bambini.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su corru de su pistilloni.
    Il corno veniva utilizzato come rimedio per l’infiammazione provocata dai pizzichi di insetti (sa passadura). Dentro il corno veniva messo olio e un geco (secondo alcuni anche una vipera) che era stato fritto da vivo. Poi l’olio veniva usato per alleviare e guarire l’infiammazione della puntura dell’insetto (contra ferenu).
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Sa sonniga.
    Questo amuleto veniva messo sotto il cuscino come rimedio per l’insonnia. Si trovava in campagna sotto i muretti a secco.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su scritu.
    Amuleto contro il malocchio e dolori di varia natura costituito da un piccolo sacchetto arancione ricamato a mano che poteva contenere immagini o vesti di santi, preghiere e formule sacre. Veniva fatto benedire e portato cucito tra le vesti.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su scritu.
    Retro del sacchetto.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su scritu.
    Amuleto contro il malocchio e dolori di varia natura costituito da un piccolo sacchetto di velluto rosso con bordatura dorata che poteva contenere immagini o vesti di santi, preghiere e formule sacre. Veniva fatto benedire e portato cucito tra le vesti.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su scritu utilizzato per curare la mastite (su pilu de tita).
    Sacchetto confezionato a mano con stoffa rossa quadrettata e provvisto di laccetto. Non si conosce di preciso il contenuto del sacchetto ma si dice fosse molto efficace.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su scapulariu.
    Scapolari recanti le scritte “Cor Jesus miserere nobis” e “Mater et decor Carmeli ora pro nobis” confezionati dalle monache carmelitane. Si portavano cuciti tra le vesti come protezione dai mali.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    Su scapulariu.
    Scapolari recanti le scritte “Cor Jesus miserere nobis” e “Mater et decor Carmeli ora pro nobis” confezionati dalle monache carmelitane. Si portavano cuciti tra le vesti come protezione dai mali.
    Collezione privata.
    Foto di Manuela Maxia.

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    La signora Carmela Tarantello pratica i brebus contro il mal di testa.
    Foto di Manuela Maxia.

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La magia

Amuleti, brebus e scritus
Gli amuleti più utilizzati a San Nicolò Gerrei erano costituiti da gioielli, brebus e scritus.
Tra i gioielli più comuni abbiamo su pinnadeddu (chiamato in altre zone dell’isola pinnadellu, sabegia, sebeze, coco), amuleto di forma sferica costituito da diversi materiali: ossidiana, legno, ambra, onice, pasta vitrea nera. Veniva appeso negli abiti o nelle culle e aveva lo scopo di proteggere dal malocchio gli adulti e in particolar modo i bambini. Ai piccoli di solito veniva messo al polso un braccialetto o un laccetto benedetto di colore verde. Contro il malocchio veniva usato anche l’amuleto “occhio di Santa Lucia” portato solitamente come ciondolo; ma non tutti potevano permetterselo, era infatti privilegio delle persone più benestanti.


I brebus venivano usati come soluzione a svariati problemi: per impedire, ad esempio, che gli animali morissero dopo aver mangiato sa feurra, una pianta velenosa per pecore, vacche e capre o per impedire al bestiame di uscire dal terreno. Pare, infatti, che dopo tale rito, nonostante venisse lasciato aperto il recinto, il bestiame non uscisse.
Venivano usati anche per ritrovare il bestiame rubato o per conoscere chi lo aveva sottratto. Il rito prevedeva la scelta del luogo in cui posizionarsi; si recitavano poi dei brebus in cui veniva invocato Sant’Antonio e la prima persona che passava corrispondeva al nome del ladro.
Queste preghiere erano efficacissime anche per impedire che gli uccelli mangiassero l’uva della vigna. Questo particolare rituale doveva essere fatto dal padrone della vigna che, uscendo da casa prima dell’alba, senza urinare e senza parlare, a testa china, ignorando chiunque gli passasse accanto, una volta arrivato in vigna recitava i brebus. Venivano lasciati solo due filari in balia degli uccelli che, da quel momento, non osavano più avvicinarsi agli altri filari.
Nel paese ricordano anche un altro rito per evitare che gli uccelli facessero danni nelle vigne (brebus po is pillonis de bingia). Questo rito, che come tutti gli altri doveva essere fatto “in nome di Dio”, iniziava sempre con il segno della croce, seguiva poi l’Ave Maria e infine si recitava:
“Is pillonis mius funt centu e chi bollestas che su bentu,
che su bentu bollestas e s’axina de sa bingia mia no tochestas,
e s’arena de s’arriu si siat druci che su meli
e s’axina de sa bingia mia marigosa che su feli”.
Doveva essere ripetuto nella vigna per tre volte in tre posti diversi; si doveva girare in senso orario o antiorario indifferentemente, ma sempre facendo attenzione a non rifarlo dove si era già fatto precedentemente.

I brebus venivano usati anche per ritrovare qualcosa smarrita e per ricordare qualcosa dimenticata. Veniva quasi sempre invocato Sant’Antonio (uno dei Santi più venerati in Sardegna) con diverse formule e recitando sempre il Padre nostro, ripetendo due volte ogni verso. Dopo due-tre volte che si era recitata la preghiera, l’oggetto smarrito veniva ritrovato; era come una forza che spingeva proprio dove si trovava l’oggetto smarrito o che faceva ritornare alla mente ciò che si era dimenticato.

Con la recita di brebus si sono avute anche numerose guarigioni in gravi casi di ernia inguinale e di dolori alla coscia e all’inguine (mannuga de coscia). Ci si recava in una vecchia strada di campagna e si disegnava il piede del malato sul terreno; passandoci sopra con un coltello, a croce, si recitavano i brebus dicendo per tre volte: “Ita ses fendu?” – “Seu seghendu mannuga de coscia”. E la persona guariva.
In caso di frattura alle costole, si usava fare sa mama de sa linna. Si prendeva un pezzo di rampicante, si metteva sopra la brace e quando era ben asciutto si riduceva in polvere. La polvere così ottenuta veniva messa in un bicchiere d’acqua e bevuta tenendo una mano poggiata nella zona della frattura. Subito dopo si recitavano i brebus e “miracolosamente” la frattura si saldava.

Brebus po sa stria
Sa stria
è il barbagianni, un uccello notturno. Si riteneva che quando passava in un centro abitato e orinava potesse causare alle persone più deboli una malattia conosciuta con il nome di sa stria. Questa malattia provocava malessere generale e debolezza, privava le persone di energia da non riuscire quasi a camminare.
Una signora ricorda che quando si vedeva passare sa stria, per proteggersi, si incrociavano i piedi e si diceva: “Stria stria, mali ti andit pinnia, pinnia ti andit mali, ollu fumu e sali”.
Per verificare se qualcuno era “striato” si procedeva nel seguente modo. Si iniziava con il segno della croce. Poi si prendeva un pezzo di filo, si misurava la persona dalla testa ai  piedi e si tagliava il filo a misura. Poi con questo pezzo di filo, si misurava la lunghezza delle braccia, dalle punte delle dita della mano destra a quella di sinistra. Se l’apertura delle braccia era maggiore della lunghezza del filo significava che si era colpiti dalla striadura. L’operazione veniva ripetuta fino a quando la misurazione corrispondeva. Nel farlo si ripetevano per nove volte di seguito alcuni brebus e si finiva con il Credo.

Oltre ai brebus vi erano alcuni rimedi della cosiddetta medicina popolare.
Contro le bruciature, ad esempio, un rimedio molto efficace per impedire che si formasse la bolla era quello di utilizzare il fango che si formava, a causa dell’umidità, sotto le brocche d’acque (solitamente in terracotta) poggiate sui muretti.
Per curare il mal di testa e i dolori al costato si usavano tegole riscaldate oppure il sughero riscaldato.
Contro le ferite alla testa provocate da pietre si usava lo zucchero; mentre per tagli di varia natura si usava, come disinfettante, l’urina.
Contro il mal di denti si utilizzava su ciuvraxeddu, farina impastata con un po’ di vino, che veniva poggiata direttamente sulla guancia e lasciata agire per una notte. Questo rimedio veniva usato anche contro le pestature e veniva chiamato anche sa cuchedda.
Contro il mal d’orecchie si usava mettere all’interno dell’orecchio alcune gocce d’olio d’oliva riscaldato.
Contro il mal di pancia dei bambini, per eliminare l’aria, un ottimo rimedio era il massaggio della pancia con l’acquavite.
Per le emorragie interne all’occhio (sa ghettada) si prendeva un pezzo di stoffa e la si avvolgeva intorno a un rametto di rovo secco tagliato a metà. Con un filo di colore nero veniva legato ai capelli se era una donna, a su berretu (il cappello) negli uomini. Con la punta del rametto si cercava poi di eliminare “i vermi” dall’occhio.

Sa sonniga veniva messa sotto il cuscino come rimedio per l’insonnia.
Si trovava in campagna sotto i muretti a secco.

Su corru de su pistilloni
Il corno veniva utilizzato come rimedio per l’infiammazione provocata dai pizzichi di insetti (sa passadura). Una signora ricorda che quando veniva punta da un insetto sua madre la mandava a casa di una signora che possedeva questo corno. Dentro il corno veniva messo olio e un geco (secondo alcuni anche una vipera) che era stato fritto da vivo. Poi l’olio veniva usato per alleviare e guarire l’infiammazione della puntura dell’insetto (contra ferenu).

Su scritu era una sorta di preghiera scritta o anche un’immagine sacra che molti superstiziosi portavano cucita sugli abiti; veniva preparato dalle mamme per i figli specie se vivevano lontano da casa. La preghiera o l’immagine (ma solo chi lo realizzava conosceva esattamente il contenuto) veniva racchiusa in un pezzo di stoffa di colore scuro chiamato scapulariu e solitamente veniva fatto benedire prima di essere indossato.
Unu scritu era utilizzato, ad esempio, per no atacai sa pigadura de ogu. Se qualcuno “era preso d’occhio” si praticava “la medicina dell’occhio”. Si diceva che il malocchio potesse sprigionarsi anche involontariamente; in ogni caso lo sfortunato che era stato “preso d’occhio” se non era immediatamente toccato dalla stessa persona che aveva esercitato su di lui tale potere (il “toccasana” di cui parlava anche il Wagner), stava talmente male che doveva sottoporsi alla mexia de s’ogu.
Spesso a essere “presi d’occhio” erano anche oggetti, piante e i fiori che si rompevano o si seccavano.

Su scritu veniva usato anche per curare la mastite (su pilu de tita).
Un tempo la mastite era molto frequente, accompagnata spesso da febbre altissima sino a far mancare il latte materno. Una signora ricorda che quando era piccola era stata mandata dalla madre, affetta da mastite, da una signora che possedeva su scritu. La consegna doveva rispettare uno specifico rituale: su scritu doveva essere buttato a terra e, da terra, raccolto perché de terra nasceus e de terra depeus torrai. Rientrata a casa, prima di consegnarlo alla madre aveva ripetuto lo stesso rito: lo aveva buttato a terra e sua madre, da terra, lo aveva raccolto e lo aveva appeso al reggiseno e portato per tre giorni. Lo aveva poi riportato alla signora: lo aveva buttato per terra e la signora lo aveva raccolto, rispettando la ritualità. Dopo qualche giorno la madre era guarita.
Questo rimedio veniva usato anche con gli animali.

Brebus e riti, per conservare la loro efficacia, dovevano essere tramandati da una persona più anziana a una più giovane. Nessuno doveva essere presente o, perlomeno, la somma dell’età dei presenti non doveva essere superiore a quella dell’anziano. Chi riceveva in dono tale potere doveva credere nel rituale e praticarlo sempre “in nome di Dio”. Qualsiasi rito iniziava, infatti, col segno della croce, a seguire si pronunciavano preghiere e brebus; non dovevano mai essere fatti dietro compenso o tornaconto, altrimenti perdevano la loro efficacia.

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